Prefazione: Contro il Vuoto

di Antonino Saggio

Cominciamo con il dire che il libro di Claudio Catalano I sandali di Einstein: introduzione all’estetica dello spaziotempo è proprio un bel saggio: interessante, ricco di spunti, chiaro nell’esposizione, curato bibliograficamente e a tratti esaltante. Non è solo chi scrive che la pensa così, ma anche tre qualificati lettori che ritroverete come redattori nel colophon e tra i recensori di questo volume sulla stampa.

Come in una scuola giusta in cui il direttore è anche spazzino, l’alunno creatore, il bidello padre, madre e custode, l’insegnante maestro, guida e giudice, così questa nuova collana si muove sull’idea che per affrontare le crisi dobbiamo essere multitasking. In questa occasione chi scrive ha fatto l’editore e il direttore di collana, il prefattore e l’editor. Da bambino di due anni farfugliai a mia madre: «Io grande … quello». Indicavo ciò che mi appariva un presagio. L’uomo nella salita di via di Sant’Agnese non aveva una orchestra, ma suonava lo stesso: l’armonica con la bocca, il tamburo con il piede, i piatti con la testa. Noi crediamo che per lanciare una nuova collana bisogna essere un poco dei «pazzarielli»: lo volevamo essere e non ne abbiamo paura. D’altronde non è una novità: gli italiani hanno sviluppato atavicamente la capacità di affrontare le crisi con il multitasking.

Anche il contenuto di questo libro è multitasking. Innanzitutto è una brillante antologia sulla questione dello spazio e del tempo. Il percorso è costellato di perle, alcune, anche per chi conosce un poco la questione, del tutto inaspettate e sempre molto interessanti. Il secondo livello è quello della interpretazione critica: i materiali sono sempre dispiegati e spiegati con capacità e talento. Il terzo livello è saggistico. Gli ingredienti non sono scelti a caso, ma si incasellano l’uno con l’altro per farci comprendere l’evoluzione delle concezioni di spazio e di tempo e i rapporti che si intrecciano tra arte e scienza. Catalano compie un affascinante percorso: da Newton a Boullée da Riemann a Turner, da van Gogh a Poincaré, da Einstein a Duchamp, da Heisenberg e Bohr a Cage . L’Autore non solo opera in questi tre livelli, ma ne costruisce un quarto che è sfida e progetto. Ci immerge nello stato dell’arte della questione dello spaziotempo ponendoci effettivamente in crisi. Una crisi che ciascuno affronterà come meglio crede a seconda del campo di operatività, ma è certo che per gli architetti è particolarmente forte. Ma non siamo al punto zero. Sono anni che ragioniamo su questi problemi.

Non vorremmo annoiare con auto citazioni, ma vorrei ricordare alcune tappe perché questo mi permette di ricordare alcune persone che ho incontrato e che mi hanno aiutato. Renato De Fusco mi sfidò anni fa sostenendo che «l’informazione materia prima dell’architettura» era un nonsense. Fu così generoso da accogliere in Op. Cit. l’articolo di risposta in cui mi soffermai su una nuova definizione di informazione che era operativa esattamente per la fase storica – quella della Rivoluzione Informatica – in cui siamo. Per me e per tanti che hanno lavorato con me è stata una pietra miliare.

Contemporaneamente, ai tempi in cui dirigevo una collana internazionale, chiesi a Michele Emmer di affrontare la questione dello spazio dal punto di vista di un matematico e nacque Mathland dal mondo piatto alle ipersuperfici. Iniziai una riflessione che da allora pervase i miei corsi: quella del tempo come condizione prima per capire lo spazio. Vi furono esiti belli, come in un mai dimenticato progetto (Terragni, Frame, Iperspace la generazione di mondi pluridimensionali attraverso l’uso della poetica terragniana) per una installazione alla Casa dell’architettura di Roma. Molte di queste idee si sono riversate in seguito nel mio libro per Carocci Introduzione alla Rivoluzione Informatica in Architettura, citato da Catalano in bibliografia. Infine, mentre ero immobilizzato a letto per un incidente e stimolato dalla lettura di tre libri di Carlo Rovelli, riuscii a scrivere «Perché rappresentare l’invisibile? Information Technology, spazio dell’informazione e nuove sfide per il progetto e la rappresentazione», nella storica rivista di Mario Docci Disegnare.

Proprio questo recente articolo mi fornisce alcuni spunti per dire al lettore: «Devi essere in crisi, ma non completamente… Alcune cose le abbiamo capite.» Eccole in rapida sequenza.

Il primo concetto è che vuoto e spazio non sono sinonimi. Il vuoto ha significati profondi, legati in particolare alla cultura scintoista che usa il vuoto come evocazione della divinità. Una divinità che per presenziarsi ha bisogno del vuoto. Ma spazio non è sinonimo di vuoto. Il concetto di spazio varia da tempo a tempo e si intreccia con gli strumenti cognitivi che l’umanità mette a punto nel suo percorso. In una fase storica, quella definita classica, spazio e vuoto coincidono e coincidono con una idea di tempo e di spazio assoluti. Si tratta della costruzione del mondo della matematica e geometria analitica di Cartesio e della fisica di Newton. Ma attraverso Einstein lo spazio non è più un vuoto, ma una rete quadridimensionale che si incurva con la massa. I fisici quantistici arrivano a descrivere questo spazio come un pieno composto di granuli legati a rete tra loro.

Ora, ecco il punto sostanziale. Questa idea di spazio «pieno» ha conseguenze non sono solo cognitive, ma operative. I progressi tecnologici dei nostri anni rendono questo spazio attivabile via sensori che costituiscono il ponte tra spazio e concretizzazione architettonica. I raggi ultravioletti, i segnali radio, i segnali televisivi, le onde wifi o bluetooth possono reificarsi trasformandosi in azioni concrete che tutti conoscono a cominciare dall’apertura di un cancello. Le azioni però non hanno solo la potenza pratica della utilitas, ma anche la possibilità di aprirsi ad una dimensione estetica. Ci aiutano a pensare e costruire da architetti il «nostro» spazio, lo spazio dell’oggi, lo spazio dell’informazione cui molti artisti e architetti peraltro lavorano da anni. Ecco perché il sottotitolo di questo libro – introduzione all’estetica dello spaziotempo – è così significativo e pervade la trattazione.

Di giorno ragioniamo con la logica, con la parte razionale del nostro cervello, ma la notte e soprattutto nel sogno, il nostro cervello opera per libere associazioni che sono a-logiche e non sequenziali. Il primo processo è illuminato dal metodo della scienza, il secondo processo si muove nell’ombra e si illumina solo per brandelli come se la mente lavorasse con improvvisi flash. Ma entrambe, scienza e arte, procedono per salti, entrambe procedono per intuizioni e ipotesi, entrambe estrapolano un progetto interpretativo della realtà. Ecco perché arte e scienza, come notte e giorno, sono sorelle.

Rimane aperta la questione del perché questo libro si intitoli I «Sandali» di Einstein? Io lo so, o meglio, ho la mia interpretazione, ma a ciascuno trovare la propria. Buona lettura.

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